Concorso I-Fantasy Fazi Editore
Arrivato tra i finalisti, ma nessun premio
Anno 2012
“Inoltre faceva sì
che a tutti,
piccoli e grandi,
ricchi e poveri,
liberi e servi,
fosse posto un marchio
sulla loro mano
destra.”
Apocalisse 13:16
Ero una ragazza
normale. Avevo una vita normale.
Da quando ero
riuscita a trovare lavoro, avevo lasciato la famiglia dove stavo in
affidamento ed ero andata a vivere per conto mio. Vent'anni di
valigie fatte e disfatte mi potevano bastare: ora dovevo fermarmi.
Il posto in cui abitavo sembrava piccolo, appena sufficiente per una
persona sola, ma davvero niente male: recente costruzione, camera
soppalcata e acqua e luce compresi nel prezzo. Avevo sedici sorelle e
undici fratelli. Beh, aspettate: forse è opportuno precisare che ho
passato quasi tutta la mia vita in una casa famiglia di provincia,
perciò se conto i bambini che ho visto arrivare e poi andare via in
due decenni sì, posso dire di avere avuto sedici sorelle e undici
fratelli. Non ho mai avuto molti sogni nel cassetto: non mi è mai
importato neppure di sapere dove fossero i miei veri genitori. Volevo
solo vivere serenamente fino al giorno della mia morte. Felice
sarebbe stato chiedere troppo; il serenamente
invece lo potevo pretendere.
Quando però mi
svegliai dal mio sonno - diciamo così – non proprio
programmato, fu mortificante dover constatare quanto poco era
durata la mia appena conquistata libertà. Ah, Gesù. Sentivo gli
occhi gonfi e pesanti, come dopo una sbronza tremenda. Mi ero
ubriacata la sera prima? Non ricordavo nulla, niente di niente.
«Finalmente.
Cominciano a ripvendersi»
aveva bisbigliato qualcuno in un
italiano duro, con un accento per certi versi simile al tedesco. Chi
era? Mi avevano ricoverato? Ero in ospedale? La voce e l'esaltazione
del tipo sembravano così lontane da me, come ovattate. A fatica,
riuscii a rompere il sigillo di stanchezza che mi teneva gli occhi
incollati e presto, quando fui in grado di mettere a fuoco, mi resi
conto di essere rinchiusa in una specie di tubo verticale
trasparente, con delle luci a led molto forti che mi accecavano e con
delle prese d'aria condizionata alle due estremità.
«Ehi,
che roba è questa? La nuova macchina antipanico per le Tac?»
Alcune ventose
tenevano sotto controllo il ritmo agitato del mio cuore; un ago
cannula era inserito nel mio braccio e tenuto fermo con del nastro
adesivo. Presi a dimenarmi, stranamente più furiosa che spaventata –
rispondimi per Dio, non lo vedi che la cosa dell'antipanico qui
non sta funzionando? Fammi uscire, cazzo.
«Oh-oh!
E guavda
che energia!»
sogghignò ancora l'uomo, che ora mi era perfettamente visibile: un
vecchio, pelato e rugoso, con degli occhiali spessi come due fondi di
bottiglia sul naso e la pelle ricoperta di macchie. «Sarai
un'adepta pveziosissima,
mia cava
Aurora».
«Una che?»
gridai. «Chi diavolo sei tu? Che cos'è questa roba?»
Non rispose. Non
ero sicura che potesse sentirmi. Continuò a sfregarsi le mani e a
ripetere noncurante: «Uno dei miei lafori migliori, ottimo».
Seguendolo con lo sguardo, potei vedere che io ero solo una nel
mucchio: altri tubi verticali erano disposti in fila accanto a me.
Alla mia sinistra, c'era una ragazza che pareva avere all'incirca la
mia età, ancora addormentata. A destra, un ragazzo dai capelli
biondi come il grano si stava appena riprendendo. Il suo aspetto
aveva qualcosa di strano; il viso era in parte pallido e in parte
arrossato. Quando si guardò intorno, esattamente come avevo fatto io
poco prima, il suo sguardo mi inquietò: le iridi erano bianche,
bianchissime. Poiché era impossibile avere gli occhi di quel colore,
nonostante i suoi lineamenti fossero tipicamente dell'est, non potei
fare a meno di chiedermi se anche i miei fossero diventati così. Ok,
via libera al panico Lola.
Lentamente, dalla
concitazione crescente del vecchio, capii che anche gli altri ostaggi
stavano cominciando a risvegliarsi. La ragazza che prima era svenuta
al mio fianco attaccò a piangere quasi subito dopo aver ripreso
conoscenza, singhiozzava come una bambina di due anni risultando
davvero molto fastidiosa..
«Nein!
Assolutamente no!» esclamò l'uomo, contrariato. «Dof'è
tutto coraggio? Dof'è la determinazione? Ti abbiamo giudicata
male, mia cava... Chloe. Uhm, ma che bel nome» aggiunse come
tra sé, scrutando la cartella che aveva in mano. «Su di te la
tvasformazione non ha fatto altro che renderti ancora più
inutile di quanto non fossi già da umana: temo che dofrai
essere eliminata» e detto questo, premette con forza un codice di
cinque-sei cifre su una tastiera minuscola disposta a lato del tubo.
Un liquido scuro cominciò a sgorgare dalla flebo di Chloe e io potei
vederla contorcersi dal dolore, fino a che non morì strozzata dalla
sua stessa saliva.
«Congratulazioni»
continuò allora il vecchio, allontanandosi da noi di circa un metro
di modo che tutti potessimo vederlo e sentirlo alla perfezione. «Foi
siete coloro che sono stati prescelti per far parte di un pvogetto
magnifico. Siete dei sanguinari,
adesso. Siete l'esperimento
728. Sono contento di
federe
che anche questa volta ho dato il meglio di me - a parte un piccolo
incidente di percorso, che può capitare perfino ai migliori. E so
che vi starete facendo molte domande, ma abbiate pazienza: non appena
la vostra tvasformazione
sarà completata capirete tutto. Ormai, manca solo l'inserimento del
chip».
Sanguinari?
Trasformazione? Di che cavolo stava parlando? Certe cose mica
esistevano. O sì?
Da un computer, disposto sopra un tavolo grande di fronte ai
nostri loculi, l'uomo macchinò qualcosa sulla console e dei ganci di
metallo, con una specie di pistola laser a margine, cominciarono a
scendere dal soffitto e presero posto all'altezza del nostro ventre.
Il ragazzo dai capelli color del grano, fu uno dei primi ad
assaggiare quel nuovo passaggio dell'esperimento. La pistola sparò
una luce porpora in direzione del suo polso destro e un minuscolo
quadratino bianco gli venne impiantato sotto pelle, provocandogli un
dolore passeggero ma intenso che lo costrinse ad urlare per pochi
istanti.
Sentii almeno altre
quattro brevi imprecazioni e capii che presto sarebbe arrivato
inevitabilmente anche il mio turno: con il cuore in gola e ancora
incredula tentai di liberarmi un'ultima volta, ma quando vidi la
lucina della mia pistola illuminarsi chiusi gli occhi d'istinto,
sentii il rumore dello sparo, ma non provai nessun dolore.
Perché? Forse quel
marchingegno si era inceppato? Forse il vecchio ci aveva ripensato e
non voleva più che diventassi un'adepta? No; non sentii dolore
perché non era stata la pistola dello scienziato pazzo a sparare:
sette uomini, vestiti di nero da capo a piedi e armati fino ai denti
si erano appena introdotti nel laboratorio rompendo il finestrone
dietro le apparecchiature. Avevano ucciso il vecchiaccio con un colpo
e avevano fatto fuori il computer generale. Quello era un bene o
eravamo cascati dalla padella alla brace? Cominciarono a prendere
a bastonate i tubi che ci tenevano prigionieri e distrussero con
forza tutto quello che capitò loro a tiro. Vidi alcuni di noi
opporre resistenza e scagliarsi verso quei tizi, nella foga di uno
scontro, il mio tubo venne frantumato in mille pezzi, ma io rimasi lo
stesso legata come un salame, incapace di muovermi mentre gli altri
combattevano.
«Andiamo, scendi!»
urlò d'un tratto un ragazzo, dopo avermi liberata e dopo aver
tirato via la flebo dal mio braccio con poca eleganza. «Andiamo!
ANDIAMO!» mi afferrò per una mano e mi trascinò via con la forza.
«È la polizia?»
domandai, mentre cercavo di farmi largo con lui in quella confusione.
«Sono venuti a salvarci?»
«Non sono venuti a
salvarci, cretina!» sbottò incollerito. «Guarda!» e afferratami
la testa, mi costrinse a voltare lo sguardo indietro per alcuni
secondi: uno di quegli uomini aveva appena rotto l'osso del collo a
un prigioniero. «Non capisci? Sono venuti per ucciderci!» Poi mi agguantò
ancora e mi portò fuori dal laboratorio, cercando di evitare di
essere colpito, catturato o ucciso. E cercando di evitare che
qualcosa del genere capitasse a me.
Quell'edificio
sembrava essere fatto di soli corridoi fluorescenti che non finivano
mai: nessuna finestra, a parte quella nella camera degli esperimenti,
nessuna entrata. Praticamente, un labirinto impossibile. Sembrava di
correre a vuoto dentro a una lampadina.
«Come facciamo ad
uscire?» chiesi, esasperata.
«Ne so quanto te»
rispose malamente il giovane. Aveva il viso contorto in una smorfia
di disappunto; le sopracciglia nere e folte erano aggrottate e tutto
di lui trasudava tensione.
«Come ti chiami?»
domandai ancora, tentando un approccio amichevole.
«Victor»
sentenziò, seccamente.
«Io sono Lola.
Aurora . Ma tutti mi chiamano Lola».
«Sì, Lola.
Piacere Lola. Ora vuoi startene un po' zitta? Se non te ne sei ancora
accorta siamo nella merda».
Lo fulminai
permalosa, ma a malincuore obbedii. Quel tipo mi piaceva poco, i
suoi modi di fare mi intimidivano e mi rendevano nervosa. Lo odiavo
come si odiano gli assistenti sociali quando, con i loro giri di
parole e i loro bei modi infiocchettati, finiscono per dirti che sei
comunque tutta sbagliata. Malgrado ciò, non avrei mai osato avventurarmi da
sola in quel casino, Dio no. Avrei sopportato arrendevole la sua
compagnia anche a costo di fingere di essere una ragazza dolce e
mansueta. E vaffanculo.
Dopo aver vagato
inutilmente per innumerevoli androni tutti uguali, e dopo aver corso
lontano dal rumore di passi che a volte ci sembrava di sentire,
incontrammo di nuovo il ragazzo biondo grano.
«Ehi» dissi.
«Ehi, Victor, fermo. Lui era con noi, può aiutarci».
Victor mi guardò
malssimo.
«Più siamo meglio
è, no? In caso di un altro attacco. Tu!» gridai verso il giovane.
«Eri nel laboratorio, seguici. Stiamo tentando di trovare l'uscita».
Ma il ragazzo
biondo grano non si mosse. Continuò a starsene immobile dall'altro
lato del corridoio, con il capo leggermente inclinato verso il basso,
e con quegli occhi bianchi agghiaccianti fissi verso di noi.
«Che problemi
ha?» commentai scocciata.
«Non-non credo che
voglia unirsi al gruppo» balbettò il mio compagno. «Andiamo via,
dai».
«Sì, beh, non possiamo
lasciarlo qui» mi opposi. «Lo uccideranno se lo trovano.»
«Aurora,
dai retta: è meglio se tagliamo la corda adesso».
Ebbi appena il
tempo di voltarmi un'ultima volta prima di accorgermi che il ragazzo
brandiva un enorme coltello insanguinato in mano. Ok no, forse non
voleva far parte della nostro team. Cominciammo a correre
spaventati e lui di riflesso prese a inseguirci. Il ragazzo era
velocissimo e ce l'aveva proprio con noi, ma perché? Intravedemmo
una porta in lontananza e ci lanciammo all'interno senza pensare a
cosa avremmo potuto trovare dall'altra parte: la porta però non
aveva uscite e precipitammo lungo un pendio non molto scosceso che
terminava ai piedi dell'altura sulla quale era stato costruito il
laboratorio bunker. Anche il tipo biondo si lanciò e quando fummo
tutti a terra aggredì Victor con prepotenza. Nonostante quest'ultimo
riuscisse a difendersi bene, dimostrando grande abilità nel
combattimento, per un attimo mi sembrò che stesse per avere la
peggio, fino a che qualcosa spuntò dal bosco e uccise una volta per
tutte il nostro assalitore, permettendoci di tirare un sospiro di
sollievo.
«Ah, ibridi»
sbruffò l'uomo apparso dal nulla, guardandoci con
sufficienza. «Allora è vero che ne esiste qualcun altro oltre a
me».
«... chi sei?»
domandai, con la voce che tremava - e non solo quella.
«Sono Ago» disse, aiutando Victor a rialzarsi. «Massimo Agostini per
intero, ma Ago mi piace di più: fa tanto come dire, non so,
nome d'arte da ibrido» rise e
la sua risata sembrò quella di uno mooolto fuori di testa. Se ne accorse:
«Non abbiate paura, sono come voi. Ma è meglio che ce ne andiamo
subito, se non vogliamo fare la fine del vostro amico bellicapelli, qui».