domenica 12 marzo 2017

SN728 - Via dall'incubo (Capitolo I - L'inizio)


Concorso I-Fantasy Fazi Editore 
Arrivato tra i finalisti, ma nessun premio
Anno 2012




Inoltre faceva sì che a tutti,
piccoli e grandi, ricchi e poveri,
liberi e servi, fosse posto un marchio
sulla loro mano destra.”
Apocalisse 13:16


      Ero una ragazza normale. Avevo una vita normale.
      Da quando ero riuscita a trovare lavoro, avevo lasciato la famiglia dove stavo in affidamento ed ero andata a vivere per conto mio. Vent'anni di valigie fatte e disfatte mi potevano bastare: ora dovevo fermarmi. Il posto in cui abitavo sembrava piccolo, appena sufficiente per una persona sola, ma davvero niente male: recente costruzione, camera soppalcata e acqua e luce compresi nel prezzo. Avevo sedici sorelle e undici fratelli. Beh, aspettate: forse è opportuno precisare che ho passato quasi tutta la mia vita in una casa famiglia di provincia, perciò se conto i bambini che ho visto arrivare e poi andare via in due decenni sì, posso dire di avere avuto sedici sorelle e undici fratelli. Non ho mai avuto molti sogni nel cassetto: non mi è mai importato neppure di sapere dove fossero i miei veri genitori. Volevo solo vivere serenamente fino al giorno della mia morte. Felice sarebbe stato chiedere troppo; il serenamente invece lo potevo pretendere.
    Quando però mi svegliai dal mio sonno - diciamo così – non proprio programmato, fu mortificante dover constatare quanto poco era durata la mia appena conquistata libertà. Ah, Gesù. Sentivo gli occhi gonfi e pesanti, come dopo una sbronza tremenda. Mi ero ubriacata la sera prima? Non ricordavo nulla, niente di niente.
    «Finalmente. Cominciano a ripvendersi» aveva bisbigliato qualcuno in un italiano duro, con un accento per certi versi simile al tedesco. Chi era? Mi avevano ricoverato? Ero in ospedale? La voce e l'esaltazione del tipo sembravano così lontane da me, come ovattate. A fatica, riuscii a rompere il sigillo di stanchezza che mi teneva gli occhi incollati e presto, quando fui in grado di mettere a fuoco, mi resi conto di essere rinchiusa in una specie di tubo verticale trasparente, con delle luci a led molto forti che mi accecavano e con delle prese d'aria condizionata alle due estremità.
      «Ehi, che roba è questa? La nuova macchina antipanico per le Tac?»
      Alcune ventose tenevano sotto controllo il ritmo agitato del mio cuore; un ago cannula era inserito nel mio braccio e tenuto fermo con del nastro adesivo. Presi a dimenarmi, stranamente più furiosa che spaventata – rispondimi per Dio, non lo vedi che la cosa dell'antipanico qui non sta funzionando? Fammi uscire, cazzo.
      «Oh-oh! E guavda che energia!» sogghignò ancora l'uomo, che ora mi era perfettamente visibile: un vecchio, pelato e rugoso, con degli occhiali spessi come due fondi di bottiglia sul naso e la pelle ricoperta di macchie. «Sarai un'adepta pveziosissima, mia cava Aurora».
      «Una che?» gridai. «Chi diavolo sei tu? Che cos'è questa roba?»
     Non rispose. Non ero sicura che potesse sentirmi. Continuò a sfregarsi le mani e a ripetere noncurante: «Uno dei miei lafori migliori, ottimo». Seguendolo con lo sguardo, potei vedere che io ero solo una nel mucchio: altri tubi verticali erano disposti in fila accanto a me. Alla mia sinistra, c'era una ragazza che pareva avere all'incirca la mia età, ancora addormentata. A destra, un ragazzo dai capelli biondi come il grano si stava appena riprendendo. Il suo aspetto aveva qualcosa di strano; il viso era in parte pallido e in parte arrossato. Quando si guardò intorno, esattamente come avevo fatto io poco prima, il suo sguardo mi inquietò: le iridi erano bianche, bianchissime. Poiché era impossibile avere gli occhi di quel colore, nonostante i suoi lineamenti fossero tipicamente dell'est, non potei fare a meno di chiedermi se anche i miei fossero diventati così. Ok, via libera al panico Lola.
      Lentamente, dalla concitazione crescente del vecchio, capii che anche gli altri ostaggi stavano cominciando a risvegliarsi. La ragazza che prima era svenuta al mio fianco attaccò a piangere quasi subito dopo aver ripreso conoscenza, singhiozzava come una bambina di due anni risultando davvero molto fastidiosa..
    «Nein! Assolutamente no!» esclamò l'uomo, contrariato. «Dof'è tutto coraggio? Dof'è la determinazione? Ti abbiamo giudicata male, mia cava... Chloe. Uhm, ma che bel nome» aggiunse come tra sé, scrutando la cartella che aveva in mano. «Su di te la tvasformazione non ha fatto altro che renderti ancora più inutile di quanto non fossi già da umana: temo che dofrai essere eliminata» e detto questo, premette con forza un codice di cinque-sei cifre su una tastiera minuscola disposta a lato del tubo. Un liquido scuro cominciò a sgorgare dalla flebo di Chloe e io potei vederla contorcersi dal dolore, fino a che non morì strozzata dalla sua stessa saliva.
     «Congratulazioni» continuò allora il vecchio, allontanandosi da noi di circa un metro di modo che tutti potessimo vederlo e sentirlo alla perfezione. «Foi siete coloro che sono stati prescelti per far parte di un pvogetto magnifico. Siete dei sanguinari, adesso. Siete l'esperimento 728. Sono contento di federe che anche questa volta ho dato il meglio di me - a parte un piccolo incidente di percorso, che può capitare perfino ai migliori. E so che vi starete facendo molte domande, ma abbiate pazienza: non appena la vostra tvasformazione sarà completata capirete tutto. Ormai, manca solo l'inserimento del chip».
      Sanguinari? Trasformazione? Di che cavolo stava parlando? Certe cose mica esistevano. O sì? Da un computer, disposto sopra un tavolo grande di fronte ai nostri loculi, l'uomo macchinò qualcosa sulla console e dei ganci di metallo, con una specie di pistola laser a margine, cominciarono a scendere dal soffitto e presero posto all'altezza del nostro ventre. Il ragazzo dai capelli color del grano, fu uno dei primi ad assaggiare quel nuovo passaggio dell'esperimento. La pistola sparò una luce porpora in direzione del suo polso destro e un minuscolo quadratino bianco gli venne impiantato sotto pelle, provocandogli un dolore passeggero ma intenso che lo costrinse ad urlare per pochi istanti.
      Sentii almeno altre quattro brevi imprecazioni e capii che presto sarebbe arrivato inevitabilmente anche il mio turno: con il cuore in gola e ancora incredula tentai di liberarmi un'ultima volta, ma quando vidi la lucina della mia pistola illuminarsi chiusi gli occhi d'istinto, sentii il rumore dello sparo, ma non provai nessun dolore.
     Perché? Forse quel marchingegno si era inceppato? Forse il vecchio ci aveva ripensato e non voleva più che diventassi un'adepta? No; non sentii dolore perché non era stata la pistola dello scienziato pazzo a sparare: sette uomini, vestiti di nero da capo a piedi e armati fino ai denti si erano appena introdotti nel laboratorio rompendo il finestrone dietro le apparecchiature. Avevano ucciso il vecchiaccio con un colpo e avevano fatto fuori il computer generale. Quello era un bene o eravamo cascati dalla padella alla brace? Cominciarono a prendere a bastonate i tubi che ci tenevano prigionieri e distrussero con forza tutto quello che capitò loro a tiro. Vidi alcuni di noi opporre resistenza e scagliarsi verso quei tizi, nella foga di uno scontro, il mio tubo venne frantumato in mille pezzi, ma io rimasi lo stesso legata come un salame, incapace di muovermi mentre gli altri combattevano.
     «Andiamo, scendi!» urlò d'un tratto un ragazzo, dopo avermi liberata e dopo aver tirato via la flebo dal mio braccio con poca eleganza. «Andiamo! ANDIAMO!» mi afferrò per una mano e mi trascinò via con la forza.
     «È la polizia?» domandai, mentre cercavo di farmi largo con lui in quella confusione. «Sono venuti a salvarci?»
     «Non sono venuti a salvarci, cretina!» sbottò incollerito. «Guarda!» e afferratami la testa, mi costrinse a voltare lo sguardo indietro per alcuni secondi: uno di quegli uomini aveva appena rotto l'osso del collo a un prigioniero. «Non capisci? Sono venuti per ucciderci!» Poi mi agguantò ancora e mi portò fuori dal laboratorio, cercando di evitare di essere colpito, catturato o ucciso. E cercando di evitare che qualcosa del genere capitasse a me.
      Quell'edificio sembrava essere fatto di soli corridoi fluorescenti che non finivano mai: nessuna finestra, a parte quella nella camera degli esperimenti, nessuna entrata. Praticamente, un labirinto impossibile. Sembrava di correre a vuoto dentro a una lampadina.
      «Come facciamo ad uscire?» chiesi, esasperata.
    «Ne so quanto te» rispose malamente il giovane. Aveva il viso contorto in una smorfia di disappunto; le sopracciglia nere e folte erano aggrottate e tutto di lui trasudava tensione.
     «Come ti chiami?» domandai ancora, tentando un approccio amichevole.
     «Victor» sentenziò, seccamente.
     «Io sono Lola. Aurora . Ma tutti mi chiamano Lola».
     «Sì, Lola. Piacere Lola. Ora vuoi startene un po' zitta? Se non te ne sei ancora accorta siamo nella merda».
     Lo fulminai permalosa, ma a malincuore obbedii. Quel tipo mi piaceva poco, i suoi modi di fare mi intimidivano e mi rendevano nervosa. Lo odiavo come si odiano gli assistenti sociali quando, con i loro giri di parole e i loro bei modi infiocchettati, finiscono per dirti che sei comunque tutta sbagliata. Malgrado ciò, non avrei mai osato avventurarmi da sola in quel casino, Dio no. Avrei sopportato arrendevole la sua compagnia anche a costo di fingere di essere una ragazza dolce e mansueta. E vaffanculo.
      Dopo aver vagato inutilmente per innumerevoli androni tutti uguali, e dopo aver corso lontano dal rumore di passi che a volte ci sembrava di sentire, incontrammo di nuovo il ragazzo biondo grano.
     «Ehi» dissi. «Ehi, Victor, fermo. Lui era con noi, può aiutarci».
     Victor mi guardò malssimo.
    «Più siamo meglio è, no? In caso di un altro attacco. Tu!» gridai verso il giovane. «Eri nel laboratorio, seguici. Stiamo tentando di trovare l'uscita».
    Ma il ragazzo biondo grano non si mosse. Continuò a starsene immobile dall'altro lato del corridoio, con il capo leggermente inclinato verso il basso, e con quegli occhi bianchi agghiaccianti fissi verso di noi.
    «Che problemi ha?» commentai scocciata.
    «Non-non credo che voglia unirsi al gruppo» balbettò il mio compagno. «Andiamo via, dai».
    «Sì, beh, non possiamo lasciarlo qui» mi opposi. «Lo uccideranno se lo trovano.»
    «Aurora, dai retta: è meglio se tagliamo la corda adesso».
    Ebbi appena il tempo di voltarmi un'ultima volta prima di accorgermi che il ragazzo brandiva un enorme coltello insanguinato in mano. Ok no, forse non voleva far parte della nostro team. Cominciammo a correre spaventati e lui di riflesso prese a inseguirci. Il ragazzo era velocissimo e ce l'aveva proprio con noi, ma perché? Intravedemmo una porta in lontananza e ci lanciammo all'interno senza pensare a cosa avremmo potuto trovare dall'altra parte: la porta però non aveva uscite e precipitammo lungo un pendio non molto scosceso che terminava ai piedi dell'altura sulla quale era stato costruito il laboratorio bunker. Anche il tipo biondo si lanciò e quando fummo tutti a terra aggredì Victor con prepotenza. Nonostante quest'ultimo riuscisse a difendersi bene, dimostrando grande abilità nel combattimento, per un attimo mi sembrò che stesse per avere la peggio, fino a che qualcosa spuntò dal bosco e uccise una volta per tutte il nostro assalitore, permettendoci di tirare un sospiro di sollievo.
     «Ah, ibridi» sbruffò l'uomo apparso dal nulla, guardandoci con sufficienza. «Allora è vero che ne esiste qualcun altro oltre a me».
     «... chi sei?» domandai, con la voce che tremava - e non solo quella.
    «Sono Ago» disse, aiutando Victor a rialzarsi. «Massimo Agostini per intero, ma Ago mi piace di più: fa tanto come dire, non so, nome d'arte da ibrido» rise e la sua risata sembrò quella di uno mooolto fuori di testa. Se ne accorse: «Non abbiate paura, sono come voi. Ma è meglio che ce ne andiamo subito, se non vogliamo fare la fine del vostro amico bellicapelli, qui».

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