domenica 12 marzo 2017

SN728 - Via dall'incubo (Capitolo I - L'inizio)


Concorso I-Fantasy Fazi Editore 
Arrivato tra i finalisti, ma nessun premio
Anno 2012




Inoltre faceva sì che a tutti,
piccoli e grandi, ricchi e poveri,
liberi e servi, fosse posto un marchio
sulla loro mano destra.”
Apocalisse 13:16


      Ero una ragazza normale. Avevo una vita normale.
      Da quando ero riuscita a trovare lavoro, avevo lasciato la famiglia dove stavo in affidamento ed ero andata a vivere per conto mio. Vent'anni di valigie fatte e disfatte mi potevano bastare: ora dovevo fermarmi. Il posto in cui abitavo sembrava piccolo, appena sufficiente per una persona sola, ma davvero niente male: recente costruzione, camera soppalcata e acqua e luce compresi nel prezzo. Avevo sedici sorelle e undici fratelli. Beh, aspettate: forse è opportuno precisare che ho passato quasi tutta la mia vita in una casa famiglia di provincia, perciò se conto i bambini che ho visto arrivare e poi andare via in due decenni sì, posso dire di avere avuto sedici sorelle e undici fratelli. Non ho mai avuto molti sogni nel cassetto: non mi è mai importato neppure di sapere dove fossero i miei veri genitori. Volevo solo vivere serenamente fino al giorno della mia morte. Felice sarebbe stato chiedere troppo; il serenamente invece lo potevo pretendere.
    Quando però mi svegliai dal mio sonno - diciamo così – non proprio programmato, fu mortificante dover constatare quanto poco era durata la mia appena conquistata libertà. Ah, Gesù. Sentivo gli occhi gonfi e pesanti, come dopo una sbronza tremenda. Mi ero ubriacata la sera prima? Non ricordavo nulla, niente di niente.
    «Finalmente. Cominciano a ripvendersi» aveva bisbigliato qualcuno in un italiano duro, con un accento per certi versi simile al tedesco. Chi era? Mi avevano ricoverato? Ero in ospedale? La voce e l'esaltazione del tipo sembravano così lontane da me, come ovattate. A fatica, riuscii a rompere il sigillo di stanchezza che mi teneva gli occhi incollati e presto, quando fui in grado di mettere a fuoco, mi resi conto di essere rinchiusa in una specie di tubo verticale trasparente, con delle luci a led molto forti che mi accecavano e con delle prese d'aria condizionata alle due estremità.
      «Ehi, che roba è questa? La nuova macchina antipanico per le Tac?»
      Alcune ventose tenevano sotto controllo il ritmo agitato del mio cuore; un ago cannula era inserito nel mio braccio e tenuto fermo con del nastro adesivo. Presi a dimenarmi, stranamente più furiosa che spaventata – rispondimi per Dio, non lo vedi che la cosa dell'antipanico qui non sta funzionando? Fammi uscire, cazzo.
      «Oh-oh! E guavda che energia!» sogghignò ancora l'uomo, che ora mi era perfettamente visibile: un vecchio, pelato e rugoso, con degli occhiali spessi come due fondi di bottiglia sul naso e la pelle ricoperta di macchie. «Sarai un'adepta pveziosissima, mia cava Aurora».
      «Una che?» gridai. «Chi diavolo sei tu? Che cos'è questa roba?»
     Non rispose. Non ero sicura che potesse sentirmi. Continuò a sfregarsi le mani e a ripetere noncurante: «Uno dei miei lafori migliori, ottimo». Seguendolo con lo sguardo, potei vedere che io ero solo una nel mucchio: altri tubi verticali erano disposti in fila accanto a me. Alla mia sinistra, c'era una ragazza che pareva avere all'incirca la mia età, ancora addormentata. A destra, un ragazzo dai capelli biondi come il grano si stava appena riprendendo. Il suo aspetto aveva qualcosa di strano; il viso era in parte pallido e in parte arrossato. Quando si guardò intorno, esattamente come avevo fatto io poco prima, il suo sguardo mi inquietò: le iridi erano bianche, bianchissime. Poiché era impossibile avere gli occhi di quel colore, nonostante i suoi lineamenti fossero tipicamente dell'est, non potei fare a meno di chiedermi se anche i miei fossero diventati così. Ok, via libera al panico Lola.
      Lentamente, dalla concitazione crescente del vecchio, capii che anche gli altri ostaggi stavano cominciando a risvegliarsi. La ragazza che prima era svenuta al mio fianco attaccò a piangere quasi subito dopo aver ripreso conoscenza, singhiozzava come una bambina di due anni risultando davvero molto fastidiosa..
    «Nein! Assolutamente no!» esclamò l'uomo, contrariato. «Dof'è tutto coraggio? Dof'è la determinazione? Ti abbiamo giudicata male, mia cava... Chloe. Uhm, ma che bel nome» aggiunse come tra sé, scrutando la cartella che aveva in mano. «Su di te la tvasformazione non ha fatto altro che renderti ancora più inutile di quanto non fossi già da umana: temo che dofrai essere eliminata» e detto questo, premette con forza un codice di cinque-sei cifre su una tastiera minuscola disposta a lato del tubo. Un liquido scuro cominciò a sgorgare dalla flebo di Chloe e io potei vederla contorcersi dal dolore, fino a che non morì strozzata dalla sua stessa saliva.
     «Congratulazioni» continuò allora il vecchio, allontanandosi da noi di circa un metro di modo che tutti potessimo vederlo e sentirlo alla perfezione. «Foi siete coloro che sono stati prescelti per far parte di un pvogetto magnifico. Siete dei sanguinari, adesso. Siete l'esperimento 728. Sono contento di federe che anche questa volta ho dato il meglio di me - a parte un piccolo incidente di percorso, che può capitare perfino ai migliori. E so che vi starete facendo molte domande, ma abbiate pazienza: non appena la vostra tvasformazione sarà completata capirete tutto. Ormai, manca solo l'inserimento del chip».
      Sanguinari? Trasformazione? Di che cavolo stava parlando? Certe cose mica esistevano. O sì? Da un computer, disposto sopra un tavolo grande di fronte ai nostri loculi, l'uomo macchinò qualcosa sulla console e dei ganci di metallo, con una specie di pistola laser a margine, cominciarono a scendere dal soffitto e presero posto all'altezza del nostro ventre. Il ragazzo dai capelli color del grano, fu uno dei primi ad assaggiare quel nuovo passaggio dell'esperimento. La pistola sparò una luce porpora in direzione del suo polso destro e un minuscolo quadratino bianco gli venne impiantato sotto pelle, provocandogli un dolore passeggero ma intenso che lo costrinse ad urlare per pochi istanti.
      Sentii almeno altre quattro brevi imprecazioni e capii che presto sarebbe arrivato inevitabilmente anche il mio turno: con il cuore in gola e ancora incredula tentai di liberarmi un'ultima volta, ma quando vidi la lucina della mia pistola illuminarsi chiusi gli occhi d'istinto, sentii il rumore dello sparo, ma non provai nessun dolore.
     Perché? Forse quel marchingegno si era inceppato? Forse il vecchio ci aveva ripensato e non voleva più che diventassi un'adepta? No; non sentii dolore perché non era stata la pistola dello scienziato pazzo a sparare: sette uomini, vestiti di nero da capo a piedi e armati fino ai denti si erano appena introdotti nel laboratorio rompendo il finestrone dietro le apparecchiature. Avevano ucciso il vecchiaccio con un colpo e avevano fatto fuori il computer generale. Quello era un bene o eravamo cascati dalla padella alla brace? Cominciarono a prendere a bastonate i tubi che ci tenevano prigionieri e distrussero con forza tutto quello che capitò loro a tiro. Vidi alcuni di noi opporre resistenza e scagliarsi verso quei tizi, nella foga di uno scontro, il mio tubo venne frantumato in mille pezzi, ma io rimasi lo stesso legata come un salame, incapace di muovermi mentre gli altri combattevano.
     «Andiamo, scendi!» urlò d'un tratto un ragazzo, dopo avermi liberata e dopo aver tirato via la flebo dal mio braccio con poca eleganza. «Andiamo! ANDIAMO!» mi afferrò per una mano e mi trascinò via con la forza.
     «È la polizia?» domandai, mentre cercavo di farmi largo con lui in quella confusione. «Sono venuti a salvarci?»
     «Non sono venuti a salvarci, cretina!» sbottò incollerito. «Guarda!» e afferratami la testa, mi costrinse a voltare lo sguardo indietro per alcuni secondi: uno di quegli uomini aveva appena rotto l'osso del collo a un prigioniero. «Non capisci? Sono venuti per ucciderci!» Poi mi agguantò ancora e mi portò fuori dal laboratorio, cercando di evitare di essere colpito, catturato o ucciso. E cercando di evitare che qualcosa del genere capitasse a me.
      Quell'edificio sembrava essere fatto di soli corridoi fluorescenti che non finivano mai: nessuna finestra, a parte quella nella camera degli esperimenti, nessuna entrata. Praticamente, un labirinto impossibile. Sembrava di correre a vuoto dentro a una lampadina.
      «Come facciamo ad uscire?» chiesi, esasperata.
    «Ne so quanto te» rispose malamente il giovane. Aveva il viso contorto in una smorfia di disappunto; le sopracciglia nere e folte erano aggrottate e tutto di lui trasudava tensione.
     «Come ti chiami?» domandai ancora, tentando un approccio amichevole.
     «Victor» sentenziò, seccamente.
     «Io sono Lola. Aurora . Ma tutti mi chiamano Lola».
     «Sì, Lola. Piacere Lola. Ora vuoi startene un po' zitta? Se non te ne sei ancora accorta siamo nella merda».
     Lo fulminai permalosa, ma a malincuore obbedii. Quel tipo mi piaceva poco, i suoi modi di fare mi intimidivano e mi rendevano nervosa. Lo odiavo come si odiano gli assistenti sociali quando, con i loro giri di parole e i loro bei modi infiocchettati, finiscono per dirti che sei comunque tutta sbagliata. Malgrado ciò, non avrei mai osato avventurarmi da sola in quel casino, Dio no. Avrei sopportato arrendevole la sua compagnia anche a costo di fingere di essere una ragazza dolce e mansueta. E vaffanculo.
      Dopo aver vagato inutilmente per innumerevoli androni tutti uguali, e dopo aver corso lontano dal rumore di passi che a volte ci sembrava di sentire, incontrammo di nuovo il ragazzo biondo grano.
     «Ehi» dissi. «Ehi, Victor, fermo. Lui era con noi, può aiutarci».
     Victor mi guardò malssimo.
    «Più siamo meglio è, no? In caso di un altro attacco. Tu!» gridai verso il giovane. «Eri nel laboratorio, seguici. Stiamo tentando di trovare l'uscita».
    Ma il ragazzo biondo grano non si mosse. Continuò a starsene immobile dall'altro lato del corridoio, con il capo leggermente inclinato verso il basso, e con quegli occhi bianchi agghiaccianti fissi verso di noi.
    «Che problemi ha?» commentai scocciata.
    «Non-non credo che voglia unirsi al gruppo» balbettò il mio compagno. «Andiamo via, dai».
    «Sì, beh, non possiamo lasciarlo qui» mi opposi. «Lo uccideranno se lo trovano.»
    «Aurora, dai retta: è meglio se tagliamo la corda adesso».
    Ebbi appena il tempo di voltarmi un'ultima volta prima di accorgermi che il ragazzo brandiva un enorme coltello insanguinato in mano. Ok no, forse non voleva far parte della nostro team. Cominciammo a correre spaventati e lui di riflesso prese a inseguirci. Il ragazzo era velocissimo e ce l'aveva proprio con noi, ma perché? Intravedemmo una porta in lontananza e ci lanciammo all'interno senza pensare a cosa avremmo potuto trovare dall'altra parte: la porta però non aveva uscite e precipitammo lungo un pendio non molto scosceso che terminava ai piedi dell'altura sulla quale era stato costruito il laboratorio bunker. Anche il tipo biondo si lanciò e quando fummo tutti a terra aggredì Victor con prepotenza. Nonostante quest'ultimo riuscisse a difendersi bene, dimostrando grande abilità nel combattimento, per un attimo mi sembrò che stesse per avere la peggio, fino a che qualcosa spuntò dal bosco e uccise una volta per tutte il nostro assalitore, permettendoci di tirare un sospiro di sollievo.
     «Ah, ibridi» sbruffò l'uomo apparso dal nulla, guardandoci con sufficienza. «Allora è vero che ne esiste qualcun altro oltre a me».
     «... chi sei?» domandai, con la voce che tremava - e non solo quella.
    «Sono Ago» disse, aiutando Victor a rialzarsi. «Massimo Agostini per intero, ma Ago mi piace di più: fa tanto come dire, non so, nome d'arte da ibrido» rise e la sua risata sembrò quella di uno mooolto fuori di testa. Se ne accorse: «Non abbiate paura, sono come voi. Ma è meglio che ce ne andiamo subito, se non vogliamo fare la fine del vostro amico bellicapelli, qui».

sabato 11 marzo 2017

Io, Jane

Secondo classificato - Sezione Racconti
Premio Letterario Internazionale De Leo - Brontë 
Anno 2012

 
"Non darsi modo di star bene,
 senza eccezioni.
Crollare davanti a tutti
 e poi sorridere.
Amare non è un privilegio,
 è solo abilità.
Ricordati. Ricordami.
Tutto questo coraggio non è neve.
Non si scioglie mai, 
neanche se deve .” 



     “Era una figura ambigua quella che i viaggiatori della prima diligenza del giorno diretta a Whitcross si trovarono davanti. Una ragazza - avrebbero detto - all'apparenza molto giovane, magra come poche, vestita di abiti scuri e non molto eleganti, senza nemmeno un baule o qualcosa del genere con sé. Non sembrava una mendicante, ma di certo nemmeno una persona ricca. Aveva pagato come tutti loro la diligenza, quindi pensarono che fosse una sguattera licenziata da una delle brave famiglie della zona, sorpresa con le mani nel sacco a rubare e mandata via così di fretta da non lasciarle neppure il tempo di radunare le proprie cose.
     Era pallida e grigia come la neve di dicembre, aveva segnati sul volto cent'anni di dolore - che nei loro avidi giudizi erano invece cent'anni di vergogna. I suoi occhi non brillavano della vivacità della gioventù, men che meno di quella della vita, ma apparivano velati da una sottilissima patina, opaca e quasi invisibile, che infondeva in lei quella giusta dose di mistero capace di inquietare anche il più impavido dei passeggeri presenti a bordo.
     Che sia uno spirito della notte? - si domandavano, squadrandosi a vicenda. Il gentiluomo che la giovane aveva seduto davanti, un signorotto di mezza età dalle guance piene e violacee, appariva angosciato abbastanza da sudare leggermente lungo le tempie. L'ultima cosa di cui aveva bisogno era proprio il malocchio di una strega. E la sola signora della carrozza, probabilmente coinvolta dal marito in un viaggio d'affari, appariva infastidita, quasi disgustata, dalla presenza del fantasma a bordo, così spettinato e in disordine. Da come guardava la nostra giovane sfortunata, si sarebbe detto che lei sapeva come tener testa a una maga incantatrice.
     Ma io non ero una maga, lettori. Magari lo fossi stata. Mi sarei sicuramente risparmiata lo sforzo e l'inutile dolore di vivere per un anno accanto a un uomo che ora amavo più di me stessa. Se lo fossi stata, avrei sicuramente letto nei pensieri del signor Rochester e avrei saputo a cosa pensava – a chi pensava e perché - avrei previsto le sue intenzioni e non mi sarei mai, mai... mi sarei senz'altro risparmiata il beneficio di amarlo.
     Il fresco tepore del finestrino mi dava sollievo; sentivo la fronte bruciare per la febbre. Il passare svelto dei filari mi ipnotizzava, ma l'alba non suscitava in me neppure la minima emozione. Pregavo; in silenzio. Pregavo; e piangevo lacrime nascoste. Il signor Rochester era tutto ciò che avevo di più caro, tutto ciò che amavo e io l'avevo lasciato. Cosa ne sarebbe stato di me adesso? Non potevo tornare indietro, non avevo scelta. Non c'era più posto per me a Thornfield.”
     «Signorina Charlotte?» Tabita, nonostante fosse entrata nella stanza il più lentamente possibile e avesse appena parlato, riuscì a farmi trasalire dallo spavento.
     «Perdonatemi, io non... vostro padre domanda di voi».
    «Arrivo subito» risposi. Mio padre domanda di me. Vedete? E voi, signor Héger, quando domanderete finalmente di me? Vi amo, Constantin - scrissi in fondo agli appunti del romanzo a cui stavo lavorando in quel momento. «E la vostra assenza si fa sentire più della presenza di chiunque altro» aggiunsi piano.
     Strappai il foglio e lo guardai incenerirsi nel caminetto. Evitavo di lasciare inutili motivi di discussione in giro per le stanze, la vera prigione era nella mia testa. Mi ero privata del piacere di parlare di voi perfino con Emily, sebbene una sorella riesca sempre e comunque a leggere negli occhi le verità del cuore.
     «Sei così depressa Charlotte, sono preoccupata per te» diceva. «Devi andare avanti, dimentica».
     I grandi saggi e scrittori del passato, per quanto ne abbiano scritto, non ci hanno mai davvero avvertito riguardo i poteri devastanti dell'amore. L'amore implica il cambiamento. Il cambiamento implica una trasformazione dolorosa dalla quale non si può più tornare indietro. È come essere prosciugati di tutto il sangue. È come essere svuotati dei ricordi felici. È come avere sempre fame. Il mio vivere stava in questo: dipendevo interamente da una vostra parola.

     E come potevo dimenticarvi? Se vivevo era perché voi vivevate. Se respiravo era perché anche voi lo stavate facendo da qualche parte. L'attesa sarebbe stata straziante in ogni caso; avrei continuato ad amarvi anche dall'altra parte del mondo. Il mio spirito avrebbe bussato alla finestra del vostro studio ogni sera; vi avrei seguito per le strade di Bruxelles passo, passo. Avrei spiato con tenera invidia il bacio della buonanotte ai vostri figli prima di addormentarsi, perché avevo il vostro viso davanti, continuamente. Le vostre sopracciglia folte, arcuate, così troppo spesso accigliate. Il vostro profilo severo; i vostri capelli neri, nerissimi. Mi guardavate sempre con rimprovero.

      Sapete, dopo la morte della zia, mio padre non è più stato lo stesso. Per tutta la sua vita è stato circondato da donne, ma sembrava che non fosse mai riuscito a liberarsi del fantasma di quelle che se ne erano andate. La mamma. Maria, Beth. E poi zia Lizzie. Tutte quante gli avevano portato via un pezzo di qualcosa. Mi faceva sempre più pena, più di quanto io non provassi per me stessa, dal momento che ero morta da parecchio anch'io, questo lo sapevo. Papà mi faceva pena specialmente nelle giornate invernali, quando la pioggia e la nebbia rendevano tutto così grigio, dall'aria fino alla sua pelle. Ricordavo con piacere invece le luci di Bruxelles, che sembravano un oceano di colori anche nelle più gelide delle serate. Il bagliore dei candelabri accesi, gli abiti eleganti delle mesdames nelle loro carrozze, la giovialità delle allieve della scuola che tiravano un sospiro di sollievo dopo un'intensa giornata di studio. So di aver detto di trovarla noiosa a volte, Bruxelles, ma non era la città a rendermi inquieta.

    Leggevamo molto io e mio padre. Io leggevo per lui e lui mi ascoltava. A volte, si addormentava per dei quarti d'ora infiniti e quelli erano i momenti in cui pensare mi costava di più. Non osavo alzarmi dalla sedia e lasciare la stanza; il caro reverendo Brontë provava già abbastanza difficoltà ad accettare gli anni che avanzavano senza doverlo impermalire ulteriormente. Ho imparato che la malattia può rendere un uomo molto cattivo, a momenti. Così rimanevo lì. La Sacra Bibbia poggiata sulle ginocchia e tanto, troppo silenzio. Per quanto mi sforzassi, finivo sempre per pensare a voi. Era difficile non potersene andare quando il ricordo diventava più vivo, quando la voglia di piangere si faceva così intensa da farmi singhiozzare l'invisibile. Era difficile anche quando il ricordo si faceva più dolce, perché accadeva sempre che qualcosa venisse ad interrompermi, scuotendomi violentemente.

     Ciò che più amavo ricordare era il vostro sorriso - oh, che meraviglioso sorriso avete, se solo poteste rendervene conto ridereste di più. Me ne avete regalato uno, quel pomeriggio di aprile nel vostro studio ed è stato come ricevere il bacio di un dio. Io mi trovavo a Bruxelles già da qualche mese e voi eravate particolarmente in buona quel giorno perché eravate più allegro del solito. E per come siete abituato voi a essere allegro, si poteva dire che si trattasse di un vero miracolo - perdonatemi, non volevo burlarmi di voi, anche se una smorfia mi è appena sfuggita dall'angolo della bocca e le guance sono diventate fiamme infuocate al pensiero delle vostre... particolarità.

     «Ho letto il vostro componimento, Miss Brontë. Se solo le vostre traduzioni fossero buone come le cose che scrivete» avete detto.
    «Se mi è concesso, signore, sarebbe tutto molto più semplice per me se voi mi permetteste di usare il dizionario».
    «Siete a Bruxelles da un tempo ragionevole ormai da non averne più bisogno. Piuttosto, sospetto che vi divertiate a incollerirmi con le vostre traduzioni poco più che sufficienti».
     «Oh no, così non sia, signore. Non potrei mai volere la vostra collera: ne morirei» risposi.
    Mi avete guardata. Vi siete voltato d'improvviso e avete affondato il vostro sguardo indagatore su di me. Io conoscevo bene i vostri occhi; avrei potuto enumerarne le pagliuzze dorate e le sfumature con enorme facilità. Ma credo che per voi quella sia stata la prima volta che mi avete guardata davvero. Nelle altre occasioni mi avevate solo vista, guardata mai.
     «E sia» avete ribattuto. «Usate pure il dizionario, per questa volta. E vedremo... se riuscirete a sorprendermi».
     Afferrai il consistente volume dalle vostre mani e lo strinsi forte al petto. Nella mia sciocca immaginazione ero stata così contenta di aver ricevuto in prestito quel dizionario da voi, da viverlo come se aveste tagliato una ciocca di capelli e me ne aveste fatto dono.
     «Credevo di averlo già fatto, signore, con i miei componimenti» risposi.
     Lo stupore dipinto sul vostro viso mi emozionò. «Bene; allora ridatemelo se ne siete così sicura» e avete porto la mano per riprendervi il libro.
    «Niente affatto» strinsi il dizionario ancora più forte.
    «Non volete ridarmelo?»
    «No, signore».
    «Ma io ne ho bisogno, signorina Brontë».
    «Non vi credo».
    Avete taciuto. Mi avete guardata di nuovo. Avete accantonato i miei scritti "peu correcte" e avete preso a correggere i compiti degli studenti. Non sembravate in vena di rivolgermi nessun'altra parola per quel giorno e a me poteva bastare.
     «Cercherò di fare del mio meglio signore, buonanotte».

     Era quella la felicità? Perché non ricordo di aver provato niente di più squisito. Ingenuamente, pensavo di essere riuscita a spezzare una qual sorta di incantesimo che vi teneva imprigionato nella vostra indifferenza, ma voi non mi avete rivolto la parola per tutta la settimana seguente e vostra moglie mi aveva riservato lo stesso trattamento. Tuttavia, l'attesa aveva aumentato il mio desiderio di rivedervi. Così, non dimenticherò mai il momento in cui vi incontrai di nuovo. Quella sera, il vostro studio era più buio del solito. Non era poi così tardi, perché le lezioni del pomeriggio erano appena terminate e mancava ancora un po' alla campanella della cena. Sulla vostra scrivania però, vi era solo una candela accesa e le tende erano tirate, di modo da non lasciar filtrare nemmeno uno degli ultimi raggi di sole.
     «Ah, siete voi. Venite avanti, signorina Brontë» mi avete detto.
     La vostra voce era distratta e stanca, il vostro sguardo non si era distolto dal compito che avevate per le mani. «Chiudete la porta».
     Obbedii. Mi avvicinai con timore. Sembravate molto nervoso, pronto a sbranarmi da un momento all'altro. Ma io restai in piedi, in silenzio, pronta ad accogliere il vostro attacco.
     «Sedetevi, cosa state aspettando?» avete aggiunto dopo almeno cinque minuti buoni, senza mai guardarmi.
     Obbedii di nuovo.
    «Bene» avete infine concluso, sbattendo forte il pennino sul tavolo e degnandomi finalmente di un po' di attenzione. «Vediamo che cosa siete riuscita a fare. Il vostro lavoro, prego».
     «Come...?» risposi balbettando.
     «Datemi il vostro lavoro, quello che vi ho assegnato la settimana scora» avete ripetuto.
     «Volete correggerlo adesso
   «Perché no? Non vorrete perdervi la mia espressione sorpresa? Sempre se riuscirete a sorprendermi. Restate qui, non ve ne andate. Per favore, s'intende».
     Il mio aspetto era tranquillo, ma dentro di me tutto era in fermento. Avrei potuto reggere il vostro giudizio così, su due piedi? Vi guardavo con insistenza, studiavo il vostro profilo: il vostro naso dalle narici grandi e colleriche, le vostre labbra così ben delineate. La cosa che preferivo di voi erano i segni della vostra pelle. Non erano segni di vecchiaia, sebbene aveste superato l'età della giovinezza da un pezzo. Erano più pieghe di esperienza. Una delle più affascinanti si trovava a metà strada tra le vostre sopracciglia, un solco scavato dalle troppe volte in cui vi siete aggrottato, probabilmente. Ma le più belle in assoluto, erano quelle che partivano dalla base del vostro naso e percorrevano con un non troppo profondo semicerchio i lati della vostra bocca. Ve ne era un'altra, infine, che non compariva quasi mai perché andava di pari passo con il vostro sorriso; quando sorridevate infatti - e parlo di un sorriso vero, una risata piena - compariva una piccola linea verticale subito in prossimità degli angoli della vostra bocca. Si dice che chi ha gli angoli della bocca rivolti all'insù sia una persona positiva ed estroversa; chi li ha rivolti all'ingiù sia invece più timido e insicuro. Così mi sono sempre chiesta che cosa volesse significare il vostro modo di ridere, visto che non appartenete né all'una e né all'altra categoria. Forse quella linea verticale che spezza le vostre labbra ai lati, sta a significare che non siete come tutti gli altri, che anche voi vi lasciate spezzare spesso, vi impedite di essere felice, siete il guardiano della vostra gioia, alla quale rinunciate come se foste stato condannato a essere punito a vita. Ma per che cosa?
      Non ho spostato lo sguardo dalla vostra persona nemmeno per un attimo, così come voi non avete spostato mai lo sguardo verso di me. Poi, a un tratto, il lembo del mio vestito ha sfiorato il vostro ginocchio e siamo rimasti così, vicini ma non abbastanza da toccarsi davvero. Facevo attenzione a non respirare troppo forte, avrei potuto rimanere schiava della vostra ombra per tutta la vita.

     Monsieur Héger, nella lettera che tempo fa avete scritto a me e a Emily, dopo che in fretta e furia lasciammo Bruxelles per la morte della zia, mostravate apprezzamento e... mancanza. Una mancanza che però non ho ritrovato al mio ritorno. Perché d'un tratto siete diventato così freddo? Mi ignoravate, pur cercandomi. Eravate quasi sempre voi il primo a fare un passo, commissionandomi l'una o  l'altra traduzione. Troppo impegnato per parlarmi di persona; troppo poco per lasciarmi andare via. Ditemi come posso dimenticarvi, signor Héger? Come posso dimenticare quella volta?

     Vi siete accanito su di me con una rabbia immotivata, che mi siete sembrato come un vulcano di frustrazione rimasto inesploso per troppo tempo. Avete continuato a infierire, e infierire, fino a che non sono scoppiata in un pianto disperato proprio davanti a voi.
     «E questa la chiamate traduzione? Non vi ho insegnato nulla? Un nomade analfabeta avrebbe saputo fare di meglio. Sono deluso, molto deluso!» avete detto, camminando avanti e indietro nel vostro studio come una bestia infuriata; il mio lavoro tra le mani pronto a essere fatto a brandelli.
     «Mi dispiace! Io... ho cercato di fare del mio meglio. Come sempre!»
    «Non è abbastanza!» avete gridato. «Fare del nostro meglio, a volte non è abbastanza» ripeteste più piano, abbandonandovi a testa bassa, i pugni serrati contro il legno della scrivania. Poi in un balzo, mi avete afferrato per le spalle e mi avete spinta contro il muro. «Non innamoratevi di me, Miss Brontë» avete detto in una supplica. «Non fatelo».
     Vi guardai, sgranando gli occhi, sorpresa.
     «È-troppo-tardi» confessai.
     Allora vi siete calmato. Avete asciugato, rassegnato, le mie lacrime col dorso della mano. Eravate a un palmo dal mio naso, potevo sentire il vostro respiro caldo sulla pelle, il vostro profumo.
     «È tutto così sbagliato, Charlotte. Riuscite a capirlo?»
     «Lo capisco. Ma non posso accettarlo».
    Chiusi gli occhi; aspettavo un vostro bacio. Ma voi avete solamente sigillato le mie labbra con un dito, prima di voltarvi e allontanarvi, senza più dire una parola.
     Vostra moglie era entrata nello studio, allarmata probabilmente dal frastuono. Sophie era con lei. Mi guardò con un'aria così severa che non seppi reggere il confronto. Fuggii; e il vostro sguardo mi seguì. Lo potei sentire anche dandovi le spalle. Poi la porta del vostro studio si chiuse di nuovo. Sophie ne venne esclusa, proprio come me. E io abbandonai lì dentro il mio più grande rimpianto: quello di non avervi baciato almeno una volta e la consapevolezza che, da quel momento, tutto sarebbe cambiato.
     Avevamo perso la nostra occasione.
Da una lettera di C. Héger:
“Miss Brontë, qui a Bruxelles stiamo tutti bene. Vi ringraziamo per la vostra missiva. Continuate a studiare il francese e non fatevi distrarre da altro.
Cordialmente, 
Professor C. Héger.”

     Il giorno della mia seconda partenza lo porterò nel cuore per sempre, come un dipinto nitido e chiaro stampato a fuoco nella memoria. Pioveva molto e faceva freddo. Prima di salire sulla carrozza che mi avrebbe strappato definitivamente da voi, mi voltai a cercare la vostra sagoma alla finestra dello studio: non eravate sceso a salutarmi come avevano fatto gli altri insegnanti, così avevo pensato, avevo sperato, che almeno da lontano io potessi...
     La pioggia batteva sul mio viso, il temporale avanzava. Le vostre tende vennero di colpo tirate e io mi rassegnai al fatto di avervi perso. Ma poi, qualche metro più avanti, al cancello, vi vidi nascosto nell'antro di mattoni rossi che delimita l'ingresso della scuola. Mi avete di nuovo chiuso le labbra con un dito e io, ancora una volta, ho obbedito.
     «Così... addio, signorina Brontë».
     «Non ditelo, voi sapete: mi basterebbe un vostro segno, solo uno, per trasformare questo addio in un arrivederci».
    Avete sorriso, guardando in basso. Mi sembrò di sentir soffocare un signhiozzo. Mi avete preso una mano e ve la siete portata al petto.
    «Ecco, ascoltate» avete detto. «Non chiedetemi altro».
 Da una lettera di C. Brontë 
“Monsieur Héger, signore... so che non ho nessun diritto di dire quello che sto per dire, ma come potete dedicarmi così tanta indifferenza? Pensate che possano bastarmi queste due misere righe? Pensate di potermi liquidare come si liquida un'insulsa amante francese? Che cosa pensate che io sia? Volete forse dirmi che non ha significato nulla quello che c'è stato tra di noi? Ho sentito il vostro cuore battere per me.”
            E ancora.
“È vostra moglie che vi impedisce di scrivermi? Non sarete mai mio. Questo non è sufficiente per lei? Dedicatemi almeno un po' del vostro tempo, signore; fatemi capire che mi pensate almeno la metà di quanto io penso a voi. Perché se un giorno scoprissi che sono scomparsa dalla vostra memoria... se un giorno scoprissi che mi avete dimenticata, per me non avrebbe più senso vivere, lo capite? E allora la morte sarebbe solo una consolazione. Desiderate la mia morte, signore? Io a volte, lo ammetto, sì.”

     «È così folle, Charlotte. Non puoi spedire sul serio una lettera del genere a Monsieur Héger. Ti prenderà per pazza».
    «Non giudicarmi. Tu non c'eri, non puoi capire».
    Emily si era avvicinata a me. Mi aveva accarezzato i capelli e guardata con compassione.
     «Devi dimenticarlo. È stato solo... niente. È stato niente, ecco tutto».
    Scoppiai a piangere.
    «Charlotte, gli uomini sono creature incomprensibili, a volte. Sono impulsivi, seguono il loro istinto animale. Ma Monsieur Héger è sposato».
     «E credi che non lo sappia?» ribattei.
    «Allora che cosa ti aspetti che faccia? Che cosa vuoi da lui?»
    «Vorrei che... io vorrei solo...»
    «Ti rendi conto di quello che gli stai chiedendo, vero?»
   «Tu non avresti dovuto nemmeno leggerla questa lettera» singhiozzai ancora. «Ma in questa casa  avete sempre l'abitudine di apparire alle mie spalle come corvi!»
   «Un giorno capirai da te quanto tutto questo sia sbagliato, Charlotte» e dopo avermi baciata la fronte, Emily si congedò.
Da una lettera di C. Brontë:
"È passato oramai un tempo sensatamente lungo da quell'episodio, ma non sono ancora sicura di poter dire quanto sbagliato sia stato incontrarvi. Ho provato nel tempo a riconquistare la vostra amicizia, mi sono mostrata calma e giudiziosa; ma i vostri silenzi si sono fatti sempre più frequenti. Emily e Anne mi hanno coinvolto in un progetto che sta assorbendo le mie giornate per intero e tutta la mia energia. Ho scritto un libro. Parla di un uomo tormentato che alla fine decide di seguire il suo cuore nonostante le avversità. Abbiamo appuntamento con un editore a Londra la prossima settimana, vorrei tanto che il mio lavoro venisse pubblicato anche se forse non sono mai stata una granché, come più volte avete sostenuto. Sapete, Monsieur Héger, a volte ci sembra di vivere una favola, e come nelle favole, ci si aspetta di avere un finale banale. Felice, ma banale. La vita vera però non è così, non ti deve niente. Non deve impressionarti. Non deve saziarti. Può lasciarti a metà. Può lasciarti a metà anche per sempre. 
Leggetelo. Leggetemi, per favore."
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Charlotte Brontë morì il 31 marzo del 1851.
Pochi anni dopo, morì in Belgio anche Monsieur Héger.
La signora Héger decise di chiudere la scuola.
Una delle loro figlie, Victorine, facendo l'inventario dei libri nella biblioteca del padre trovò un volume conservato lontano dagli altri, in un cassetto chiuso a chiave.  Era scritto in inglese e il titolo era Jane Eyre, di un certo Currell Bell. Nell'ultima pagina vi era questa annotazione:
"Très bien, ma chère... très bien"